lunedì 20 dicembre 2010

Università: riflessioni sul primo passo della riforma “epocale”

Giovanni Genovesi

*Il saggio del prof. Genovesi è stato scritto prima del secondo passaggio alla Camera e della definiva approvazione in Senato.

1. Considerazioni preliminari

29 luglio 2010: il Senato della Repubblica, con 152 voti a favore, 94 contrari e 1 astenuto, approva il disegno di legge ministeriale n. 65, composto di 25 articoli, sulla riforma dell’Università (Norme in materia di organizzazione delle Università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario). Nonostante da mesi sindacati, ricercatori, opposizione e studenti abbiano protestato duramente contro il progetto Gelmini, il testo è stato approvato dal Senato senza neppure troppa fatica. Per farne un esame dettagliato sarà necessario avere sott’occhio tutto l’articolato, il cui testo definitivo, con le integrazioni e gli emendamenti apportati nella discussione in Aula, non è ancora disponibile. Finora, anche su internet come sui giornali, non vi sono state riportate che le linee guida essenziali. Ma, sia pure rimandando il lettore ad un mio pezzo sulla governance comparso in un precedente numero di questa rivista, mi pare al momento sufficiente prendere in considerazione i punti nuovi che emergono da quanto sappiamo dal testo approvato al Senato. Tuttavia, le riflessioni cui esso ha dato luogo possono essere sempre di grande utilità.
Credo che per l’Università sia un bene che vi sia ancora un periodo di riflessione sia sulle procedure concorsuali per il reclutamento dei docenti e di ricercatori, sia sulle questioni pensionistiche sia, soprattutto, sul concetto stesso di Università dal quale dipendono le strategie per affrontare tutti i possibili problemi dell’istruzione superiore e che, invece, non sembra ben chiaro ai membri del nostro Parlamento, siano essi di centrodestra, di centrosinistra o di centro. L’onorevole ministro Mariastella Gelmini, ringalluzzita dall’approvazione del suo disegno di legge e anche dal fatto che l’hanno votato insperabilmente anche i tre senatori dell’API di Francesco Rutelli e i due del Sudtirolervolkspartei, ha definito la riforma “un evento epocale che rivoluziona i nostri Atenei e che permette all'Italia di tornare a sperare”. “L'Università – ha aggiunto il Ministro – sarà più meritocratica, trasparente, competitiva e internazionale. Il ddl segna la fine delle vecchie logiche corporative: sarà premiato solo chi se lo merita”. Sono parole enfatiche, più dichiarazioni d’intenti e propositi velleitari che constatazioni di quanto la riforma ha capacità di fare. Ciò non vuol dire che tutti i provvedimenti della riforma siano da bocciare, ma che anche i provvedimenti da ritenere positivi finiscono per naufragare grazie alla mancanza di un concezione difendibile logicamente del ruolo culturale e sociale dell’Università.
Non si tratta, quindi, di non essere d’accordo con lo spirito della riforma perché essa avanza a forza di tagli finanziari. Anzi, paradossalmente ma forse non troppo, i tagli finiscono per essere la parte migliore della stessa riforma, quella a cui avrebbero dovuto provvedere coloro che sono stati i diretti responsabili della gestione degli Atenei, ossia i Rettori e i Presidi che, invece, troppo spesso si sono rivelati malaccorti moltiplicatori di spese superflue come l’incosciente proliferare dei corsi di laurea, la chiamata di docenti “inutili” sia per la didattica sia per la ricerca a quel certo corso di laurea, l’incapacità di difendere l’autonomia gestionale magari allineandosi in maniera fin troppo supina alle direttive ministeriali svelando l’assoluta inutilità di conferenze dei Rettori e di conferenze dei Presidi. Certo, non sono mancate anche le colpe e i peccati dei cosiddetti baroni che, specie con l’entrata in vigore delle procedure di valutazione a livello locale con due idoneità hanno profuso e stanno profondendo il peggio di se stessi. Tutti noi professori e ricercatori di Pedagogia generale abbiamo ricevuto l’infiammata lettera del collega Bardulla, Presidente di commissione a Napoli, anche se sappiamo bene che non sono certo sufficienti simili prese di posizione che finiscono per accettare le regole di procedure che poi si intendono denunciare ma che non si è fatto mai nulla perché fossero diverse e, magari, si è altrettanto spesso brigato perché potessero giocare a proprio favore o, perlomeno, a danno di qualche altro. Troppo spesso abbiamo contribuito a rendere l’Università un luogo sempre culturalmente peggiore e del tutto crepuscolare come correttezza morale al punto che proprio i tagli che impediscono di bandire i concorsi sembrano essere la vera e propria panacea per rimettere in sesto la sfondata barca universitaria.
Nessuno di noi professori anziani dimentica come non pochi colleghi pensavano di dimostrare il loro potere accademico mettendo in cattedra proprio il candidato culturalmente più sciagurato ma che per anni aveva dimostrato di essere un “servo” fedele. Così l’Università si è andata a poco a poco, ma purtroppo sempre più in fretta, popolando di personaggi spurii che ne hanno abbassato il livello e insozzato la funzione. Meglio dunque tagliare i fondi e, comunque, cacciare quanto prima possibile personaggi che non possono che arrecare danno e disdoro all’istituzione.
Non credo però che una vera riforma possa affidarsi solo ai tagli, perché questi non riguardano solo gli sprechi della finanza allegra, ma intaccano pesantemente i fondi per la ricerca che già sono da anni “inspiegabilmente” controllati dalle solite cupole che sempre, in qualche modo, riescono a piazzare il colpo gobbo e ad impedire ad altri di avere i finanziamenti. Del resto, tutti sanno come gli odi universitari specie quando si tratta di spartizione dei soldi e dei posti (il che è lo stesso) sono feroci. È più che auspicabile, quindi, che la riforma cerchi di tutelare coloro che fanno veramente ricerca e non si trastullano dietro ai gochi di una politica universitaria pro domo sua, dimenticando addirittura che cosa sia impiantare una ricerca e, pertanto, restando del tutto tagliati fuori dal poter fare didattica.
Il problema, purtroppo, è come poter riuscire ad azzerare le trame di coloro che più di altri colleghi sono abituati a manovrare più gli strumenti politici che quelli della ricerca. Sbandierare, come fa il ministro, che la riforma si muoverà all’insegna della meritocrazia e della trasparenza mi pare piuttosto una pia intenzione che una vera strada che la stessa riforma riesca ad assicurare.
Ogni buona organizzazione è tale perché contempla le regole di controllo circa le sue dimensioni portanti. Pertanto ci vorranno sempre dei controllori; nel nostro caso è prevista l’istituzione dell’Agenzia nazionale di valutazione per l’Università e sue articolazioni anche a livello locale. Ma è inutile nascondersi dietro un dito: nell’ Univer¬sità il vero controllore della ricerca è il professore stesso, ossia lo stesso ricercatore. L’Università moderna è stata pensata per costruire individui che divengano controllori di se stessi grazie al fatto che sono guidati ad esserlo da professori che sono tali, secondo una concezione tipicamente liberale, perché sono i custodi di se stessi e insegnano ad esserlo ai propri studenti.
Se non è così, allora si arriva inevitabilmente a pensare l’Università come un luogo che può andare bene se costringiamo i suoi membri a timbrare il cartellino e a farli lavorare per 1.500 ore all’anno, proposta che può essere accettata per una azienda che produce macchine, per esempio, o comunque un qualcosa che non richiede né originalità né costante spirito di ricerca, ma solo azioni routinière.
Per la riforma, lo Stato non può fidarsi del lavoro svolto nelle Università, va dunque controllato in maniera ferrea e, forse, anche un po’ sciocca, auspicando un modo di procedere di tipo aziendale, magari come quello che intende il dott. Marchionne, se non addirittura una pesante introduzione nelle Università del capitale privato.
È un’impostazione questa che non mi fa apprezzare nel complesso la riforma Gelmini. Non perché manca di idee, ma perché quelle che espone sono del tutto contro ad una concezione educativa di Università.

2. I punti salienti della riforma

Ma inquadriamo ora, sia pure nella loro globalità, i punti salienti toccati dal testo della riforma approvato dal Senato. Ne segnalo cinque, con le novità per ciascun punto: 1. Governance, 2. Professori, 3. Ricercatori, 4. Fondo merito, 5. Rettori.
1.Governance
a) L’abolizione della funzione di direttore amministrativo sostituita da quella di direttore generale, “da scegliere tra personalità di elevata qualificazione professionale e comprovata esperienza pluriennale con funzioni dirigenziali” con compiti di gestione effettiva dell’Ateneo, “con un contratto di lavoro a tempo determinato di diritto privato di durata non superiore a quattro anni non rinnovabile” (art. 2, c. m).
b) Il Consiglio di amministrazione (Cda) sarà composto, oltre che dalla rappresentanza degli studenti, anche da esperti esterni all’Università per un numero minimo di tre se il Cda è di undici membri, due se inferiore a undici.
c) Il Cda ha competenze molto vaste come si evince dal comma h dell’art. 2 che riporto in sintesi: il Cda “ha funzioni di indirizzo strategico, di approvazione della programmazione finanziaria annuale e triennale e del personale, nonché di vigilanza sulla sostenibilità finanziaria delle attività” e “della competenza a deliberare l’attiva¬zione o soppressione di corsi e sedi”.
d) I componenti del Cda degli Atenei e del Senato accademico (Sa), escluso il Rettore, avranno il divieto di ricoprire altre cariche accademiche e essere componenti di altri organi dell'Università ad eccezione del consiglio di dipartimento. Durante il mandato non potranno rivestire alcun incarico politico o far parte del consiglio di amministrazione di altre Università. I membri del Cda e del Sa potranno rimanere in carica per un massimo di 4 anni, non rinnovabili.
e) Il Sa, costituito su base elettiva con un numero di membri non superiore a trentacinque unità. ha competenza “a formulare proposte e pareri in materia di didattica e di ricerca” (art. 2, c. e).
f) Le Università eccellenti o virtuose, ossia quelle dette “dieci e lode” perché a posto con i conti, sono autorizzate a sperimentare, d’intesa con il ministero, nuove e originali forme di organizzazione della governance. Pertanto, invece di finanziamenti a pioggia agli Atenei i fondi ministeriali si dirigeranno verso le Università più virtuose, per contro, gli Atenei, le facoltà e i dipartimenti che non avranno i conti in regola saranno commissariati.
g) È prevista anche un'ulteriore operazione di “pulizia” dagli Atenei dei mini-corsi accademici cui sono iscritti, a volte, anche meno di dieci studenti.
h) Le Università che continueranno a far confluire oltre il 90% dei finanziamenti statali (fondo di finanziamento ordinario) negli stipendi del personale, non potranno bandire concorsi. Infine, il 7% dei fondi che annualmente lo Stato trasferisce alle Università verranno stanziati solo se darà l'assenso l'Anvur, la nuova Agenzia nazionale di valutazione dell'Università, istituita (art. 1, c. 4) per classificare gli Atenei in base al merito e alla quale spetterà verificare e valutare “i risultati secondo criteri di qualità, trasparenza e promozione del merito, anche sulla base delle migliori esperienze diffuse a livello internazionale, garantendo una distribuzione delle risorse pubbliche coerente con gli obiettivi, gli indirizzi e le attività svolte da ciascun Ateneo, nel rispetto del principio della coesione nazionale, nonché con la valutazione dei risultati conseguiti” (art. 1, c. 4).
i) Ciascun Ateneo ha un Nucleo di valutazione, “con la funzione di verifica della qualità e dell’efficacia dell’offerta didattica” (art. 2, c. q) e la cui maggioranza dei membri non deve appartenere ai ruoli dell'Università; nel caso in cui il Presidente vi appartenga, tutti gli altri componenti dovranno essere esterni (art. 2, c. p).
l) I fondi pubblici per la ricerca, secondo un emendamento proposto dal senatore Ignazio Marino, prevedono, per garantire l'obiettività del giudizio, che a valutare i progetti siano dei comitati composti per almeno un terzo da professionisti che lavorano all'estero (art. 18, c. 1).
m) Ogni Ateneo non potrà avere più di 12 facoltà (art. 2, c. 2d) e gli attuali 370 settori scientifico-disciplinari saranno ridotti del 50%.
n) Gli Atenei vicini, anche a livello interregionale, al fine di “migliorare la qualità, l'efficacia e l'efficienza dell'attività didattica, di ricerca e gestionale, di razionalizzare la distribuzione delle sedi universitarie e di ottimizzare l'utilizzazione delle strutture e delle risorse” (art. 3. c. 1), possono fondersi o aggregarsi in strutture federative sulla base di un progetto comune. Il progetto dovrà essere approvato dal Ministero dell'Istruzione e dall’Agenzia di valutazione (Anvur) (art. 3, c. 4).
o) Secondo l’art. 5 (Delega in materia di interventi per la qualità e l’efficienza del sistema universitario), lungo e dettagliato, sarà stilata dal Miur la graduatoria delle Università migliori. Al riguardo il Miur ha già reso noti i parametri di riferimento: la qualità dell'offerta formativa e i risultati dei processi formativi; la qualità della ricerca scientifica; la qualità, l'efficacia e l'efficienza delle sedi didattiche.
p) Determinante sarà lo 'spessore' delle pubblicazioni realizzate da docenti e ricercatori, oltre che il livello delle lezioni svolte in aula: i due terzi del fondo ordinario saranno assegnati, non a caso, in base alla qualità della ricerca e un terzo in base alla qualità della didattica. Per chi non si adeguerà, limitandosi a svolgere didattica ed esami, scatterà il dimezzamento dello scatto biennale di stipendio e l'impossibilità di accedere a livelli di docenza superiori.
2. Professori
a) L’art. 22 non esplicita l’età in cui i docenti sono collocati in pensione, ma lo si evince dall’abrogazione dell’art. 16 del D Lgs 30.12.1992, n. 503, cui si riferisce, che stabiliva appunto il diritto di usufruire del biennio di proroga. Del resto, i resoconti sui giornali riportavano a lettere cubitali che era stato deciso che i professori ordinari sono collocati in pensione a 70 anni e i professori associati a 68 anni. Il cosiddetto biennio Amato (art. 16 cit.) resta operativo solo per chi già ne fruisce.
b) I professori a tempo pieno dovranno svolgere attività formativa obbligatoriamente certificata per almeno 1.500 ore annuali, di cui 350 ore rivolte specificatamente all’attività didattica. Per i docenti a tempo definito le ore scendono a 750 e quelle dedicate alla didattica a 250 (art. 6, c. 1 e 2).
c) Il reclutamento dei docenti, di prima e di seconda fascia, avverrà annualmente (art. 16, c. 3c) attraverso l’abilita¬zione scientifica nazionale: “È istituita l'abilitazione scientifica nazionale… L’abilitazione ha durata quadriennale e richiede requisiti distinti per le funzioni di professore di prima e di seconda fascia” (art. 16. c. 1). Le selezioni concorsuali nazionali saranno affidate a una commissione composta da quattro docenti ordinari estratti a sorte. L'abilitazione sarà data in base ai titoli posseduti ed alle pubblicazioni, “alla luce di parametri stabiliti per ogni ruolo e area da apposito decreto del ministero”. La commissione, comunque, sarà tenuta a dare più rilevanza, rispetto al passato, alla produzione da parte dei candidati di pubblicazioni, di esperienze internazionali e di didattica svolta. Al riguardo la commissione potrà “acquisire pareri scritti pro veritate sull'attività scientifica dei candidati da parte di esperti revisori in possesso delle caratteristiche” previste (Ib., c. 3h). L'abilitazione non rappresenta un accesso diretto ai ruoli (Ib., c. 4), ma permette ai professori di essere inseriti in una lista nazionale per quattro anni, prima di essere sottoposti ad una nuova verifica. In effetti, chi passerà la selezione acquisirà l'abilitazione all'insegnamento ed entrerà a far parte di un'unica lista nazionale, da cui tutte le Università italiane attingeranno, all'occorrenza, i propri docenti.
d) I professori ordinari e associati e anche i ricercatori con incarichi didattici “sono tenuti a presentare una relazione triennale sul complesso delle attività didattiche, di ricerca e gestionali svolte” (art. 6, c. 12). Se la relazione dovesse risultare negativa scatterà lo stop all’aumento stipendiale, se previsto (Ib.).
e) Per docenti e ricercatori diventerà indispensabile realizzare pubblicazioni, sotto forma di libri, ma anche di articoli scientifici, il cui grado di qualità verrà comunque verificato ogni due anni dall’Anvur. La produttività scientifica sarà determinante giacché, “in caso di valutazione negativa… i professori e i ricercatori sono esclusi dalle commissioni di abilitazione, selezione e progressione di carriera del personale accademico, nonché dagli organi di valutazione dei progetti di ricerca” (art. 6, c. 6).
3. Ricercatori e precari
a) I nuovi ricercatori non saranno più a tempo indeterminato e non potranno entrare all’Università con età superiore a 30 anni.
b) Lo stipendio mensile del nuovo ricercatore a tempo determinato passa dai 1.300 euro dei ricercatori a tempo indeterminato ai 2.000 euro, come è possibile calcolare da quanto detto all’art. 21, comme 8.
c) Per i nuovi ricercatori (cfr. art. 21, c. 3) è introdotto un sistema detto “tenure-track”, che prevede un rapporto scandito in due tempi, il primo con un contratto di quattro anni al minimo o di cinque al massimo (tre anni prorogabili di soli due anni per una sola volta), il secondo tempo con un contratto triennale non rinnovabile e riservato a chi ha avuto un contratto del primo tipo. Se nell’arco di questi anni che possono andare da un minimo di 6 ad un massimo di 8 il ricercatore sarà ritenuto valido dall’Ateneo passerà su una cattedra di associato dopo aver ottenuto l’abilita-zione nazionale su quel ruolo (art. 21, c. 5), altrimenti cesserà il rapporto con l’Univer¬sità. I titoli maturati nell’Università gli saranno utili per i concorsi pubblici.
d) Lo stesso trattamento, o quasi, è previsto per i ricercatori a tempo indeterminato. Il “quasi” di cui sopra è dovuto alla non piccola differenza che per i ricercatori a tempo determinato si parla di inquadramento diretto (art. 21, c. 5), mentre per i ricercatori a tempo indeterminato si parla di possibilità di inquadramento (Ib., c. 6).
e) Si veda quanto detto alla lettera e del punto precedente.
4. Fondo di merito
a) Si tratta di un fondo “finalizzato a promuovere l’eccellenza e il merito fra gli studenti individuati… mediante prove nazionali standard” (art. 4, c. 1) che riceveranno borse di studio a prescindere dal livello economico della famiglia di provenienza. Rimarranno in vita, comunque, le borse di studio rivolte agli studenti meno abbienti (appartenenti a famiglie al di sotto di 15 mila euro) (cfr. art. 4, c. 2).
b) Il fondo, istituito presso il ministero dell’Istruzione, fornirà “buoni di studio, che prevedano una quota, determinata in relazione ai risultati accademici conseguiti, da restituire a partire dal termine degli studi, secondo tempi parametrati al reddito percepito” (art. 4, c. 1).
c) Il governo, per gli aiuti finanziari agli studenti meritevoli, avrà una delega per riformare, in accordo con le regioni, la legge sul diritto allo studio (Ib., c. 3).
5. Rettori
a) I Rettori sono scelti “tra i professori ordinari in servizio presso Università italiane” (art. 2, c. 1c).
b) La “carica di Rettore dura per non più di due mandati” di 4 anni o 6 anni in caso di mandato unico non rinnovabile (Ib., c. 1d).
c) Il Rettore è il rappresentante legale dell’Ateneo e ha “le funzioni di indirizzo, di iniziativa e di coordinamento delle attività scientifiche e didattiche” (art. 2, c. 1b);
d) Il Rettore, in caso di gestione ritenuta non oculata, può essere sfiduciato dal Senato accademico con una maggioranza di tre quarti (art. 2, c. 1e).

3. Alcune riflessioni in merito

Come si vede le novità non sono poche, anche se nel loro insieme mi sembrano molto velleitarie. Vale la pena chiarire il perché.
Innanzitutto è da rilevare quello spirito guascone esibito dalla maggioranza e, in particolare, dalla sprovveduta ministra Gelmini che sembra del tutto ignara delle tristi condizioni dell’Università dovute a centocinquanta anni di cattiva gestione con una malvagia accelerazione negli ultimi quarantacinque anni. Non si può pensare di porre rimedio a tanti anni di guasti, dovuti anche e soprattutto, sia dal non aver mai saputo trovare un equilibrio tra i due scopi sbandierati e mai conciliati assegnati all’Università, ossia quello della formazione culturale e quello della formazione professionale e sia dal non aver mai voluto e saputo affrontare con serietà il problema del reclutamento docente. Ma il ministro, forse perché si illude che la carica gli dia poteri taumaturgici, crede che così, quasi con un colpo di bacchetta magica, si possa rinnovare ab imis l’Università, mettendo da parte i princìpi humboldtiani, ritenuti stantii e del tutto di intralcio, e operando con la più taccagna gretteria visto anche il periodo di crisi economica che l’Italia, insieme peraltro a tutto il mondo, sta attraversando. Quando siamo costretti a fare le nozze con i fichi secchi sarebbe meglio rinunciare a diramare inviti a destra e a sinistra per il banchetto di nozze. Il buon senso vorrebbe che ci si astenesse da propositi di grand air; anzi, se i soldi mancano persino per comprare il letto matrimoniale e su ogni possibile spesa necessaria cala inesorabile il taglio con la falce, forse sarebbe bene rimandare le nozze a tempi migliori e, magari, accontentarsi di una convivenza da coppia di fatto. Inutile, del resto, farsi abbindolare da promesse da marinaio di aiuti prossimi venturi.
Fuor di metafora, è del tutto patetico che Gelmini sbandieri come epocale una riforma che nasce strozzata finanziariamente e che, inoltre, ben lungi da esaltare merito e trasparenza, ha invece caratteristiche burocratiche e autoritaristiche, che appassiscono la dimensione culturale dell’Università. Infatti espelle gli anziani perché non li sa utilizzare culturalmente, arruola giovani che tiene costantemente sotto schiaffo e che chiama professori aggregati (quale fantasia e innovatività!), massacra i precari, cancella i ricercatori mettendoli nel ruolo a esaurimento, pone le premesse per la riduzione del diritto allo studio e promette borse di studio, ammesso che ci siano le disponibilità finanziarie. Nel complesso, sia pure siano presenti anche motivazioni condivisibili, il progetto di Università che la riforma Gelmini disegna è quello di una Università senza autonomia, povera e ridotta nelle sue dimensioni attuali, sempre più guidata e frequentata da chi se la potrà permettere, in barba agli strombazzati criteri meritocratici. Io credo che una simile Università, che finirà per cadere in mano inesorabilmente ai privati, avrà cessato del tutto di avere quel ruolo pubblico che appunto è l’anima stessa dell’Università che vuol essere educatrice.
Perché non si è voluto affrontare seriamente il problema dei ricercatori a tempo indeterminato e se ne parla solo di sfuggita al c. 6 dell’art. 21 e in forma “penalizzante”? Perché si fa finta di niente – o si ribadisce semplicisticamente che hanno compiti di didattica integrativa (art. 6, c. 3) – rispetto al fatto che la maggior parte dei corsi di laurea esistenti non potrebbe realizzarsi senza la docenza dei ricercatori? Non basta tagliare e inasprire i requisiti per istituire e mantenere dei corsi di laurea o di classe e di interclasse. Questo inasprimento, peraltro, porta all’impossibilità per molti corsi di laurea di molte facoltà di istituire una laurea magistrale, senza la quale quel corso è solo un inutile moncherino. E continuando: perché non è stato preso in considerazione anche il famigerato e improvvido sistema del 3+2? E il problema della formazione docente che dovrebbe essere compito precipuo dell’Università che fine ha fatto? E il problema dei dottorati di ricerca – e in connessione quello degli assegni di ricerca – come cercare di risolverlo, lasciandoli andare alla deriva quando invece potrebbero essere le prime forme per il reclutamento docente? E, ancora, quello dell’unicità della figura docente. A nessuno è passato per la mente che la figura del professore associato fu un escamotage del CUN per mettere una pezza all’inverosi¬mile numero di incaricati e di assistenti che bussavano alle porte di un inquadramento più “decoroso”? E inoltre, siamo proprio sicuri che sia una grande innovazione portata avanti da chi vuole farsi passare per geniale e coraggioso riformista controcorrente, riproporre ancora il professore a tempo determinato? E che fine ha fatto l’idea di imperniare – come già proponeva Saverio De Dominicis e era in votis quando fu approvato il decreto 382 del 1980 – l’ Univer¬sità sui Dipartimenti, abolendo le Facoltà? Non si può pensare che basti azzerare l’esistente e misconoscere il pregresso e tirare bastonate del cieco per il futuro per mettere in piedi una riforma “epocale” che trascura di prendere in considerazione i problemi appena elencati (e non sono che alcuni!). Sono tutti problemi grossi, da far tremare le vene e i polsi e non è accettabile a cuor leggero un riformatore, privo del senso della storia, che li ha del tutto trascurati. Innovare non significa affatto far finta che i problemi si possano risolvere non tenendo conto del contesto che li ha creati e alimentati.
Insomma, è difficile prendere per buona una riforma che ha così tante lacune che, peraltro, come dicevo iniziando queste note, dipendono sostanzialmente sia dalla carenza di preparazione storica del riformatore e dalla sua incapacità di lasciar perdere la fuorviante idea che l’Università sia una azienda senza riuscire a vedere che essa è un’istituzione che produce cultura e educazione, ricerca e conoscenza.

4. Concludendo con un esempio e una proposta

Dei vari problemi che sopra ho elencato e di cui, peraltro, per gran parte ho indicato il punctum dolens, ne voglio prendere uno in particolare. Non è certo il più importante, a prescindere dal fatto che a me, prossimo alla pensione, interessi abbastanza o, perlomeno, interessava. Tuttavia a me pare che metta a nudo tutta una serie di aspetti il cui modo di essere affrontati fa la spia della concezione che si ha dell’ Univer¬sità e, soprattutto, della facilità con cui si è disposti a considerare la stessa Università come uno strumento per fare basse operazioni di Realpolitik. Si tratta del problema del pensionamento dei professori prima di quanto era stato determinato dalle regole d’ingaggio del professore stesso.
La prima riflessione al riguardo, che accennerò solo en passant perché non sono un esperto di diritto amministrativo, riguarda l’ingiustizia di essere sottoposto ai criteri stabiliti da una legge che, in maniera “furfantesca”, viene fatta valere retroattivamente.
Non credo che ciò sia corretto, anche se forse è considerato legalmente fattibile.
Passo ora ad un riflessione cui sono più affezionato perché chiama in causa una serie di aspetti che non riguardano più l’effimero contesto legislativo e giuridico, ma quello della stessa concezione dell’Università. Mi spiego meglio, o almeno spero. Pensionare gli anziani, per esempio di 65 anni o di 70, può significare che:
a) essi a quell’età sono ritenuti di scarsa utilità per l’Università sia per quanto riguarda la didattica sia la ricerca. Difficile che possa essere spiegato razionalmente il perché di una simile considerazione.
b) Il loro pensionamento liberi delle risorse che possono essere impiegate per il reclutamento di giovani leve. Si tratta di una asserzione frutto di una concezione impiegatizia di stampo aziendale dell’Università deleteria per la stessa Università.
c) Sostenere il pensionamento in oggetto è un messaggio di una notevole forza per attrarre la simpatia politica di tutti i giovani precari o ai primi passi nella carriera universitaria. Ragionamento moralmente scorretto.
d) Il pensionamento in questione è utile per liberarsi quanto prima dal peso insostenibile di persone che hanno, in generale, una concezione – o è prevedibile che l’ ab¬biano – dell’Università di tipo humboldtiano e che quindi rappresentino una difficoltà non indifferente per impostare un nuovo modello di Università, di tipo aziendale e manageriale. Senza contare che una simile mossa si pensa che dia l’impres¬sione all’opinione pubblica che si vuole veramente voltare pagina e farla finita con le vecchie baronìe. La fallacia di un simile ragionamento, privo di ogni sensibilità storica, è di tutta evidenza.
e) Una simile operazione possa servire anche a quanto già accennato, cioè a liberarsi di soggetti messi in cattedra in maniera improvvida e praticamente esempio della trista arroganza di vecchi baroni e al tempo stesso fare piazza pulita della parte residua di questi ultimi.
f) Il pensionamento dei professori specie a 65 anni si pensa, inoltre, che possa inculcare nell’opinione pubblica che il proponente intenda democraticizzare il si-stema di pensionamento, cominciando a togliere ai professori universitari un privilegio di cui possono e debbono fare a meno. Ad un vaglio razionale più attento il discorso è molto inficiato di politichese e, comunque, facendo le dovute differenze tra tipo di lavoro è suscettibile di aggiustamenti proficui per la stessa Università. Ebbene, io credo che tali aggiustamenti si possano fare se si ha un’idea di Università come luogo di formazione attraverso la cultura, la didattica e la ricerca. Una Università, dunque, che voglia assolvere un ruolo educativo e non solo formativo-professionale. Per far questo ha bisogno anche della forza culturale delle leve anziane. Vediamo, per concludere queste note, di entrare più nel dettaglio. Abbassare l’età del pensiona¬mento degli ordinari a 65 anni comporterebbe un esodo veramente notevole di docenti nei prossimi anni , al punto che diverrebbe veramente difficile mettere su i concorsi per le valutazioni dei ricercatori in entrata. Il risultato sarebbe senza dubbio quello di rendere più giovane l’Università, ma altrettanto certamente ben più mediocre. Tutto ciò significa uno spreco di risorse intellettuali. Forse con simile operazione si vogliono giustificare i tagli dei finanziamenti all’Università, ma è una giustificazione sterile perché non ha nulla di razionale. Anche perché abbassare l’età pensionabile per gli ordinari non significa affatto fare largo ai giovani né tantomeno potenziare il concetto di valorizzare il merito. Incrociando i due aspetti, ringiovanimento e meritocazia, si ottiene la messa a punto di un marchingegno perfettamente controproducente, ossia ad effetto boomerang. Si prenda un esempio che, peraltro, va per la maggiore nel mondo accademico: ammettiamo che pensionando un docente ordinario ultrasessantenne si abbia la possibilità di assumere e stipendiare due giovani ricercatori. Nessuno può affermare a cuor leggero che questa semplice operazione contribuisca a conservare un livello di qualità scientifica pari a quello fornito dal docente mandato in pensione. Addirittura, può senza dubbio capitare il contrario, ossia che spendendo gli stessi soldi – si fa per dire, dato che non saranno certo mancate le spese concorsuali per l’assunzione dei due ricercatori – si abbia un livello scientifico ben più basso di quello fornito dall’anziano docente. Si è, apparentemente, ottenuto il vantaggio di avere un posto in più, ma di fatto si è raggiunto il risultato di avere due posti in luogo di uno che costano di più di quell’uno senza avere la sua qualità di prestazione e, in più, si deve pagare la pensione al professore ultrasessantenne. Come si vede si tratta non di un vantaggio, ma di una rimessa. L’ha capito la stessa Gelmini – o Tremonti per lei – che, pur dicendo di essere d’ac¬cordo, ha respinto l’insensata proposta del Pd, avanzata dai chiarissimi cervelli accademici del collegio pisano di S. Anna e priva di qualsiasi razionalità, ma mossa solo da esigenze di una squallida politica populista unita a peregrine argomentazioni che vedono il vero nodo della riforma nel liberare i posti dei vecchi professori .
Pensate, invece ad un altro tipo di proposta, animata questa volta da logica e razionalità e non da smanie politiche da basso cortile. Ad un docente, giunto ai settanta anni, viene conservato il diritto – peraltro previsto dalle regole d’ingaggio di molti di loro allorché entrarono nel ruolo di prima fascia – di rimanere a disposizione della sua Università fino al compimento del settantacinquesimo anno d’età come docente e consulente, sia pure con un minor carico di ore di un collega più giovane, e, tutto sommato, come risorsa culturale per quel settore disciplinare e non solo della stessa Università. Si tratta di un ruolo decisivo per giovani studenti e per giovani ricercatori quello di avere persone, cariche di esperienza di ricerca e di cultura, e non solo di anni, cui rivolgersi per intavolare dibattiti e discussioni sui più svariati aspetti della ricerca. Il minor numero di ore di lezione verrebbero dunque ad essere compensate da una presenza tutoriale maggiore e di grande autorevolezza.
Ovviamente, alla dimensione culturale che dovrebbe essere privilegiata e potenziata, non si dovrebbe in nessun modo accompagnare la dimensione, diciamo, politica, ossia quella di ricoprire cariche negli organi collegiali come quella di Rettore, Preside, Direttore di dipartimento, Presidente di Consiglio di laurea o di classe, così come la possibilità di entrare come commissario nei concorsi per contribuire a gestire promozioni di cui non potrebbe essere più responsabile. Negli ultimi sue cinque anni di vita universitaria, il nostro docente sarebbe libero di espletare al meglio la passione per la quale ha intrapreso quella carriera. Non è poco, né per lui, né per tutta l’Università poter contare su chi è lontano dalle beghe politiche dell’Università stessa e per contro è tutto teso a profondere il patrimonio delle sue conoscenze e delle sue idee per potenziarne la vita culturale.
Chi vivrà vedrà e, con un po’ di fortuna, avrò modo di riprendere queste riflessioni nella seconda puntata dell’iter parlamentare del ddl della riforma.

Note

1. Si pensi che a tutt’oggi l’età media del professore ordinario è di 60 anni, del professore associato è di 53 anni e quella del ricercatore di 45 anni. A completamento di questi dati è opportuno prendere atto che nel 2009 i professori ordinari erano 17.880, quelli associati 17.567 e i ricercatori 25.435, sparpagliati in modo casuale in 89 Atenei (troppi!), di cui 20 nel Nord Ovest, 12 nel Nord Est, 27 nel Centro, 24 nel Sud e 6 nelle Isole. Ho ripreso i dati dal Corriere della Sera di martedì 27.07.2010, p. 19 e di venerdì 30.07.2010, p. 17.

2. F. Giavazzi, Il vero nodo è liberare i posti dei vecchi prof, in Corriere della Sera, martedì 27.07.2010